SALVI.. PER UN PELO!

    

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            Partimmo di primo mattino, diretti a Rivoreta attraverso la Marginetta del Maiori. La  salita  era aspra. Sulla spalla sinistra  avevo una vecchia giacca e dietro, un paio  di scarponi  militari  inglesi: neri,  pesanti,  inconfondibili.  Le stringhe  degli  scarponi mi passavano sulla spalla  e  attaccato alle  stringhe,  davanti,  sul  petto,  c’era  un  pacchetto   di medicinali,  inglesi anche questi, caduti dal cielo insieme  agli scarponi.       Roba  preziosa  ma  estremamente  pericolosa:   poteva bastare  molto meno per essere passati per le armi. Nella tasca avevo  la  pistola, mentre Massimo era disarmato.

             Camminavamo in silenzio,  io  avanti, Massimo pochi passi dietro a me. Il sentiero  si  arrampicava lungo  il fianco del monte, verso la Marginetta, più alta di  noi di qualche centinaio di metri, a forse un’ora e mezzo di cammino. Attraversava  direttamente, il sentiero, prati e macchie boscose, interrompendosi a tratti, bruscamente, dove affiorava la roccia e deviando dalla retta solo per evitare alcuni ostacoli più vistosi.

            Avevamo scelto questo piccolo, duro sentiero evitando la normale mulattiera perché sapevamo che l’intera zona  era attentamente sorvegliata. Silenziosi per quanto ci  era possibile,  con  le orecchie tese a cogliere ogni rumore che non fosse in sintonia con quanto ci circondava, gli occhi attenti,  a momenti  sulla  strada, a momenti sul paesaggio con  la speranza di riuscire a vedere in tempo un indizio della  presenza del nemico, camminavamo.

            Eravamo  ormai giunti abbastanza in alto, a forse due  terzi del  cammino per la Marginetta, quando ci trovammo sul  bordo di una radura, un grande pascolo, completamente  circondato  dalla fitta macchia di faggio: una zona assolutamente priva di alberi e molto esposta. Il sentiero la attraversava dal basso in alto, nel senso  della  massima pendenza e tutto allo scoperto.

            Stemmo per un po’ a guardare quella radura. Non ci piaceva e tenemmo  un piccolo conciliabolo: la attraversiamo o ne seguiamo il bordo tenendoci al coperto? La mia innata prudenza consigliava di fare un lungo giro evitando il prato,  Massimo voleva  invece continuare  a  seguire il sentiero. Massimo insisteva e fu così che decidemmo   di attraversare direttamente il pascolo seguendo il sentiero. Uscimmo allo scoperto e ci incamminammo: la salita non era ripida come nel bosco e si camminava su un morbido tappeto verde. Ci guardavamo intorno ma tutto continuava ad andar bene, niente in vista.

             Niente in vista!

            Eravamo a circa metà del pascolo quando un acuto fischio  ci bloccò  (mi  fece paura quel fischio), proveniente dalla nostra destra: su un piccolo colle a forse cento  metri da noi tre tedeschi ci tenevano sotto la mira delle loro armi. Uno di loro ci fece cenno di fermarci e di attenderlo e si incamminò verso di noi con uno dei compagni. L’altro era sul colle e ci  teneva  di mira.  Cosa facciamo? Aspettiamo e speriamo che tutto vada  bene o ci buttiamo a rompicollo giù per prato?

            Aspettammo sul posto, il pacchetto dei medicinali bene in vista sul petto, la pistola in  tasca, senza  sicura, pronta all’uso. Uno sarebbe morto, poi si vedrà. Giunsero  fino  a noi, i due e solo allora scese  il terzo; erano prudenti e non volevano lasciarsi sfuggire la preda. Quando furono davanti a noi ed uno, un tenente, ebbe messo in spalla  il suo  mitra  imitato da uno dei soldati mentre il terzo  (solito biondo  tedesco) ci teneva di mira  col suo fucile,  cominciò l’interrogatorio.

             Non so per quale strana ragione Massimo, sempre così pronto alle battute, se ne stette zitto, non pronunziò una parola: forse l’istinto gli diceva che se era uno solo a  parlare era  più  difficile cadere in  equivoci o  in  contraddizioni. L’ufficiale parlava abbastanza bene l’italiano, quel tanto che bastava per capire e farsi capire e questa fu una grande fortuna, per noi.

            Furono rivolte a me, le domande ed io, che non riesco  a dire  una  bugia senza diventare rosso come un peperone rosso, rispondevo calmo,  sicuro e tranquillo  e  probabilmente anche questo dette una mano alla fortuna.

            Domandava: “Chi siete?"
            Rispondevo: “Pastori."
             “Da dove venite?"
             “Da Fiumalbo."
             “Dove andate?"
             “A Rivoreta."

    
         In me nacque un pensiero: supponiamo che  questo ci lasci andare e che, al momento in cui mi volto, si vedano gli scarponi: un  momento dopo siamo morti tutti e  due.  E allora cominciai una manovra lenta, tanto lenta da essere invisibile, speravo, e  che tendeva a far si che la  giacca piano,  piano, scivolasse dalla mia spalla. La tiravo su con un spallata,  ma poco dopo la giacca ricadeva, fino a che mi sembrò  giunto  il momento di dire a Massimo:

             “Fammi un piacere: metti a posto questa giacca che cade e mi dà noia.

            Massimo  capì a volo quale era il mio intendimento e,  fattosi dietro  a me, avvolse meglio che poté gli scarponi nella  giacca. Intanto  continuavo  a rispondere alle domande  che  mi  venivano rivolte  e ad un certo punto venne fuori quella che forse  temevo di più:

             “Cosa avete in quel pacco?"

            “Medicinali”,  risposi  e  d’altra  parte  cosa  mai  poteva esserci in un pacchetto ben squadrato e accuratamente legato con lo spago? Medicinali! Fabbricai sul momento una spiegazione e, senza attendere l’altra inevitabile domanda, dissi:

            “A  Rivoreta non ci sono medicine: noi  le  compriamo  a Fiumalbo e le rivendiamo e ci guadagniamo qualche soldo."

            La   risposta dovette sembrare convincente  perché  dei medicinali non si parlò più.

             “Perché passate da qui?"

            “Perché  abbiamo  le pecore a Rivoreta ma di casa  stiamo  a Fiumalbo e spesso facciamo questa strada."

            Continuò  ancora un poco con domande varie, il tedesco,  poi ci  chiese i documenti: guardò attentamente quello di  Massimo  poi prese  il  mio  e si mise a leggere ad  alta  voce  quanto  c’era scritto  ed  io,  rimasi  di sasso  quando  sentii  la  voce  che scandiva:

            “Professione: impiegato."

             Imbecille, stupido idiota: non avevo badato al dettaglio!

            IMPIEGATO! Ma cosa mai poteva farci un IMPIEGATO sui  monti, a  due  passi  dall’Abetone, a brevissima  distanza  dal  comando generale di Kesselring?

            Ma  chi  aveva avuto la grande, geniale  idea  di  scrivere, rispondendo  alla   domanda,  professione  IMPIEGATO.  Che professione assurda, improbabile, pazzesca per un giovane PASTORE di Fiumalbo che va in giro sui monti! Ma il tedesco passò oltre: probabilmente non conosceva tanto la nostra lingua da distinguere la differenza  fra  pastore  e impiegato e non notò l’umorismo della situazione, l’impossibilità della cosa, la contraddizione con quanto gli era stato detto poco prima.

            Finì l’interrogatorio e i tre tedeschi si sedettero  su  un poggiolo  e anche Massimo si sedette mentre io rimasi in piedi  (mi costringeva  a stare in piedi il pensiero della pistola e  quello degli scarponi). Ebbe inizio una lunga chiacchierata fra noi tre, io,  Massimo e l’ufficiale; gli altri due non parlavano una  parola di  italiano e solo raramente chiedevano qualche cosa nella  loro lingua al tenente: parlammo della guerra, di come stava andando e di quando sarebbe finita. Ad un certo punto dissi:

             “Noi facciamo spesso questa strada e non abbiamo mai trovato nessuno, come mai oggi siete quassù?"

            Quando  udii la risposta il mio cuore si vuotò di  tutto  il sangue  che conteneva e provai la strana sensazione di sentire  i testicoli che si ritiravano nel ventre:

            “Stiamo cercando due banditi: Pelo e Massimo."

            Pelo  e  Massimo?  Mai  sentiti  nominare,  completamente sconosciuti!

             Poi si misero a parlare nella loro dura, gutturale lingua ed io  cominciavo  a  stare sulle spine. Non capivo  una  parola  di quello  che si dicevano ma era evidente che stavano  parlando  di noi, indecisi, forse, e io attendevo il momento  giusto,  sempre con  la mano in tasca sulla pistola pronta a sparare. Non avevo alcuna voglia di finire impiccato con un gancio da macellaio infilato nella gola, io, dopo aver magari  subito un interrogatorio  a  base di bastonate. Meglio, molto meglio, morire di pallottole in mezzo a quel verde prato assolato.

            La  nostra  silenziosa attesa durò a lungo, molto  a  lungo: minuti che sembravano anni, interminabili secoli di tormento. Durò fino al momento in cui trovai dentro di me il  coraggio di chiedere:

            “Se tutto è in regola, signor tenente, possiamo andare?"
            Uno sguardo fra loro, un breve momento di silenzio e poi:
             “Potete andare."
             “Buongiorno."
            “Buongiorno."

            Finalmente riprendemmo il nostro andare attraverso il  vasto pascolo, diretti al bosco protettore, lontanissimo: un oceano  ci divideva  dai primi alberi, un verde oceano tutto in  salita,  al cui  confine superiore, rappresentata da una cupa striscia  verde scuro, c’era la salvezza. La salita sembrava più aspra, ora, per il tremolio fitto che aveva  invaso  le  mie gambe e che non riuscivo a dominare, un tremolio del quale conoscevo la causa: era la paura per il trascorso pericolo che ora stava prendendo il sopravvento, ora che  l’azione sembrava terminata e dopo che tanto a  lungo ero riuscito a tenerla nascosta nel profondo.

             Ma anche la dura, interminabile salita allo scoperto,  sotto gli occhi dei tre rimasti nella radura, ebbe finalmente termine. Massimo  si  fermò, si volse verso i tre tedeschi e  fece  col braccio un ampio  gesto di saluto. Io lo presi per un  gesto di scherno.

            Poi sparimmo fra gli alberi. Salvi!

(...)  

Vi ricordate la fiammeggiante, rumorosa mattina di Sommocolonia? Era il 26 dicembre 1944: tedeschi e fascisti attaccarono di sorpresa, alle sei del mattino. Erano alcune centinaia e i nostri erano 50 ma si difesero molto bene. Rimasero sul terreno, quella mattina, 25 compagni, ma furono uccisi circa 75 nemici.

            Io non c’ero: mi ero sentito male non molto tempo prima e avevo chiesto qualche giorno di licenza; così mentre si combatteva lungo i vicoli del paese, io ero nel mio letto che dormivo tranquillamente.  Un male strano, il mio di quei giorni; non stavo male fisicamente. Il mio malessere era tutto morale, psichico,: in realtà avevo subito un trauma psicologico del quale risentivo duramente. E dal quale non riuscivo a riprendermi. Era nato quel triste mattino in cui un tedesco, con un colpo di fucile ben indirizzato, aveva ucciso il compagno che con me era stato di guardia per tutta una notte in quel pascolo sopra la Vetricia. Pensavo e ripensavo all’episodio: avevo perso il sonno e bastava un nonnulla per farmi fare un sobbalzo.

            Pippo mi mandò a casa per un breve periodo di riposo. Si sperava potesse bastare per rimettermi in sesto. E’ per questo che quella mattina non c'ero.

            Ed è stato un grosso dispiacere.

            A parte il fatto che, con la mia presenza, avrei potuto dare un piccolo contributo alla difesa, sarebbe stata per me, quella, una prova di una certa consistenza. Le occasioni per prove di quel genere, non erano certo mancate, nel passato, e mi ero sempre comportato in maniera decorosa: ma quella era diversa dalle altre. Ed io l’ho mancata.

            Loro l’hanno vissuta tutta: hanno vissuto il trauma del risveglio improvviso sotto l’attacco di qualche centinaio di nemici; si sono ritirati insieme agli altri combattendo di strada in strada e poi di castagno in castagno. Si sono  comportati onorevolmente! Ed io non c’ero! Io ero a letto e ancora dormivo nel calduccio.

            Poi seppi quanto era successo: raccolsi la mia roba e ripresi la strada del fronte.          

           Quel giorno non avevo voglia  di farmi a piedi i 40 chilometri che mi dividevano da loro ed allora mi  misi sul bordo della  strada  a  chiedere  un passaggio. Si fermò un grosso autocarro americano la cui cabina era già occupata: l’autista mi fece segno di arrampicarmi sul cassone.

            Mi arrampicai  e rimasi di sasso: l’autocarro, scoperto,  era  pieno fino alle sponde di grossi proiettili da artiglieria, lucido ottone e grigio acciaio,  e  l’ottone  e  l’acciaio  pieni  di esplosivo e freddi, gelidi, nel gelido inverno di quel anno

            E' evidente che le loro spolette non erano innescate, ma non fa’ una bella   impressione  sedere  su  di  un  carico   di   esplosivo, specialmente  se  si scopre subito che  l’autista,  bravo  quanto volete, è un po’ impetuoso! Tanto che alla prima curva con l’asfalto ricoperto da un sottile strato di ghiaccio, il mezzo si pose di traverso e di traverso  percorse  diverse  diecine di  metri,  per  andare  poi a fermarsi dolcemente, col fianco contro un albero!

            Io,  impietrito  dal terrore, ghiacciato dalla paura  e  dal freddo, non trovai nemmeno il coraggio di saltare giù e  impavido rimasi  seduto  sul gelido carico fino in fondo  al  lungo,  travagliato viaggio.

 (...)

            In quelle lunghe, dure, nottate di guardia in genere ci mettevamo seduti in terra, la schiena appoggiata ad un castagno, uno volto da una parte, uno dall’altra. Di traverso, sulle cosce  tenevo l’arma preferita:  il Browning automatico, 20 colpi, calibro 7.65. E una distesa di bombe a mano tutto intorno.

            Erano ore di tensione, di pressione. E non facevamo alcune ore di guardia per poi avere il cambio. Troppo pericoloso: significava indicare ai tedeschi, spesso in agguato, quale era la posizione precisa delle guardie.

            Andavamo su all’imbrunire, accompagnati da una pattuglia, ci preparavamo per la notte mentre gli altri esploravano tutto intorno e poi restavamo soli, per tutta la notte.

            Un lieve rumore a destra, rumore che le nostre armi  accompagnavano nel buio. Probabilmente una foglia cadente. Un fruscio a sinistra. Chissà da cosa provocato?

            Una notte uno di noi sparò ad un fruscio: al mattino trovammo una pecora morta.

            Si fosse ancora in tempo di guerra e osassi raccontare che una notte mi sono addormentato, finirei certamente davanti al tribunale militare. E’ un fatto che eravamo sfiniti.

            Mi assopii, quella notte, seduto, con la schiena appoggiata al castagno, l’arma sulle gambe. Quando mi svegliai ero a forse tre metri da Antonio (...) e (...)  stava gridando “Sono Antonio!”. Io avevo il dito sul grilletto. Forse ancora due secondi e avrei sparato. E ucciso un amico.

            Sonnambulo. La tensione mi aveva fatto diventare un sonnambulo.

            Sempre a Bebbio, il Sardo (quello che i tedeschi avevano fatto finta di fucilare per dare una lezione ai suoi camerati e che poi era fuggito e venuto da noi) una notte si svegliò gridando: “I tedeschi!”. Corse al tavolo col pugnale in mano e lo piantò nel legno per alcuni centimetri.

            Io, che di solito dormivo sul tavolo, era più caldo del pavimento, quella notte mi ero coricato in terra,  sotto il tavolo. Le bella dea di Preneste che sempre era al mio fianco, mi aveva avvertito (...)!

(...).

            Anche Torello diventò sonnambulo, a Bebbio. Ed una notte, giù nella valle, dove i tedeschi erano poco sopra a noi e avrebbero potuto, volendo, prenderci a sassate, Torello si levò gridando, prese il browning e corse fuori. Forse avrebbe ucciso qualcuna delle nostre guardie, se non lo avessimo fermato in tempo.

            Solo i morti non hanno paura. Non ricordo dove ho sentito questa battuta, ma mi è piaciuta!

            Oh, la vita non era monotona, a Bebbio e paraggi. Era venuta a mancare la lotta per il pane quotidiano (a questo ora ci pensavano gli americani) ma continuava aspra la guerra. Pattuglie verso il nemico di giorno, guardia di notte.

            Ogni tanto c’era anche da divertirsi: con Gostino, per esempio, con la sua fisarmonica e c’erano gli americani che lo accompagnavano battendo le mani. E ogni tanto una sgambata verso la bella cittadina.

            Due ore di cammino per scendere, quasi tre per salire. Di sassosa mulattiera. Da percorrere con attenzione perché anche lungo il primo tratto del sentiero non era da escludere la sorpresa di una pattuglia nemica.

            Era  molto giovane e non so da dove venisse. Era  arrivato e  l’avevano  aggregato  al  mio  plotone. Ebbe sfortuna perché proprio quel giorno il plotone dovette andare a sistemarsi su di un colle molto esposto,  il monte Specchione, sito nel bel mezzo  della  terra di nessuno.

            Nel  viaggio di avvicinamento (forse quattro  ore  di cammino) subimmo  un bombardamento  con  mortai  che si accanì particolarmente  quando venne  il  momento  di attraversare il torrente, largo,  in  quel punto,  forse  sessanta,  settanta  metri.             

           
Eravamo  al   coperto protetti  da una grande casa (un mulino) ed uno per  volta si  usciva  allo scoperto e, con una affannosa  corsa  giungevamo dall’altra  parte,  coperti  ora dalla costa del  monte  e  dalla vegetazione.

            Ci contammo e scoprimmo che mancava il  ragazzo giunto  in  forza proprio quel mattino. Stai a vedere  che  hanno preso proprio lui! Restava da fare solo una cosa:  riattraversare il torrente alla sua ricerca e la bisogna toccò a me. Altra corsa allo  scoperto,  sotto  il continuo  piovere  dei  proiettili  di mortaio  che  cadevano tutto intorno, ma il ragazzo  non  giaceva ferito  nel torrente.

            Giunsi alla casa e fu li che  lo  trovai, nascosto nella gora del mulino, pallido e tremante e fu solo dopo alcuni  urlacci  accompagnati da qualche scarica di  moccoli  (il tutto  volto ad infondergli un po’ di coraggio) che, un po’  spinto un po’ tirato, riuscii a compiere l’impresa di fargli attraversare il torrente.

            Era chiaro: il nuovo arrivo non era un buon acquisto!

            Arrivammo sulla vetta del colle e ci sistemammo dalla parte  nascosta  al nemico.        

           
Nostro  compito  era stare  sulla  vetta,  accuratamente nascosti, allo scopo di osservare eventuali movimenti del  nemico e segnalarli al comando con la radio.

              Ho   parlato   di  posizione  esposta:  i   proiettili   di artiglieria che gli americani lanciavano ai tedeschi e quelli che i tedeschi spedivano verso gli americani, passavano poco sopra le nostre  teste.  Si aveva netta l’impressione  che, mettendosi  in piedi  e  alzando  le braccia, avremmo  potuto  afferrarli!  Poco simpatico!

             Fu  in  quella situazione che il  nuovo  arrivato  dimostrò tutto il suo coraggio e lo faceva lagnandosi e piagnucolando. Era una  cosa  demoralizzante,  scoraggiante, snervante  e  venne  il momento  in  cui,  per  la pace di  tutti,  dovemmo  deciderci  a disfarcene.

             “La  cosa è più facile di quanto ti possa sembrare: vai  in quella  direzione,  attraversa la valle e sali sul  crinale,  poi attraversa  la  valle dopo e poi ancora  un’altra.  Troverai  una strada, la segui e sei in salvo.”

             Non fu una cosa facile spedirlo, da solo, verso la  pace delle retrovie: dovemmo forzarlo fino a minacciarlo con le armi e fu solo allora che, piangente, ci lasciò.

            Lo  ritrovai,  alcuni  mesi dopo, ed ebbi  la  sorpresa  di sentirlo, nei confronti degli astanti, piuttosto soddisfatto  per il suo comportamento al fronte!

(...) 

            In una casa  nella  terra di  nessuno  c’era  una spia, un fascista che, profittando  della conoscenza dei luoghi e della posizione  della casa  nella quale abitava, teneva d’occhio la zona e riferiva  ai tedeschi  tutti i nostri movimenti. Avemmo l’ordine di  andare  a prendere quella spia.

     Ci  fu  un  breve  scontro con  una  pattuglia  tedesca,  gli americani ci presero a cannonate per errore (l’elmetto che mi proteggeva la testa conserva il ricordo di quel errore),  poi  giungemmo alla  casa,  la  circondammo e bussammo alla  porta.  Vennero  ad aprire  due anziane signore impaurite alle  quali  chiedemmo del signore che stavamo  cercando.  Ci  fu risposto  che non c’era, ma noi non potevamo fidarci della  parola  delle due donne e dovemmo perciò perquisire tutta la casa.  Nulla e  nessuno!  La casa, a parte le due donne che  si  ostinavano  a ripeterci  che  l’uomo  in questione non c’era e  non  c’era  mai stato, era vuota.

            Stavamo facendo le nostre scuse alle due donne, quando uno di noi notò qualche cosa di strano nella posizione  di un mobile nella cucina: sembrava troppo spesso, troppo profondo. Venne rimosso e dietro, sorpresa, il nostro eroe, la spia che stavamo cercando e, sorpresa nella sorpresa, la spia era un tizio di  Lucca,  un  personaggio  molto  conosciuto.  Il pensiero che questo uomo fosse una  spia mi fece ridere perché ritengo che per fare quel brutto mestiere sia  necessario possedere: un po’ di coraggio. Dote  che  mancava completamente  nell’individuo  in  questione,  un   chiacchierone imbelle,  un  pavido  buono solo a  raccontare  mirabilia  di  se stesso, ma assolutamente innocuo, un buono a nulla. Non credo che avrebbe  mai potuto trovare in se stesso la forza necessaria  per fare  qualche  cosa  che richiedesse  iniziativa,  un  minimo  di coraggio, una motivazione, una qualsiasi spinta.

     Lo prelevammo e lo portammo al nostro comando e Pippo  seppe che  io lo conoscevo  e mi mandò a chiamare e gli dissi  che  sì, l’uomo in questione era fascista, ma gli dissi anche tutto quello che  pensavo  di  lui.  L’uomo  fu  immediatamente  sottoposto  a stringente   interrogatorio  da  parte  della   nostra polizia, giudicato innocuo e rilasciato.

            L’episodio ebbe un divertente seguito.

            Era  trascorso un anno o forse due, quando una  sera  entrai nel  vecchio  bar Savoia, ora purtroppo chiuso,  che  frequentavo, anche  se non assiduamente e nel quale ero piuttosto  conosciuto. Quella sera c’era un gruppetto di persone, nel centro del salone, e  tutti  stavano  ascoltando un tizio che,  con  toni accesi, stava raccontando qualche sua avventura.  Incuriosito,  mi  avvicinai  e rimasi a  bocca  aperta:  nel centro  del  gruppo c’era la spia, l’uomo che  eravamo  andati  a prendere  nella  terra  di nessuno, che  stava  raccontando  al  suo piccolo e attento pubblico cosa gli era accaduto un certo giorno.

             “Io ero solo e avevo un vecchio fucile e con quello  correvo come  un matto da una finestra all’altra e sparavo, sparavo e  mi difendevo  come  un leone. Ma loro erano in troppi  e  alla  fine ebbero  la  meglio  e mi portarono davanti  al  loro  comandante, davanti  a  Pippo in persona. Oh, anche a lui  seppi  dire  tutto quello  che dovevo e gliene dissi tante e poi tante,  gridando  e urlando  e citando tutte le mie conoscenze, che lo spaventai,  lo spaventai tanto che mi dovette lasciare."

            Non  posso  che limitarmi al breve riassunto  di  quanto  il tizio  in  questione  raccontò  quella  sera,  infiorettando   il racconto,  coprendolo  di  colori vari e vistosi.  Poi  venne  il momento  in  cui  chiesi permesso a quanti mi  erano  davanti  ed avanzai  fino  a quando mi trovai di fronte a lui, l’eroe  e  gli dissi (riassumo brevemente):

            “Mi  riconosci? Sono venuto io a prenderti, quel giorno,  te lo ricordi? E tu non hai sparato proprio niente, te ne sei  stato nascosto  dietro ad un armadio e hai mandato due donne a  aprirci la  porta e a dirci che  non c’eri. E Pippo non ha avuto  paura di  te, figurati, ti ha lasciato libero solo perché io gli  avevo detto che ti conoscevo bene e che ti sapevo un  bischero  (così, con  una  sola parola, si definiscono certi individui  dalle  mie parti) e che non valevi proprio niente."

            Il  mio  discorsino, riportato in  succinto, fece  scoppiare  in una grande risata tutti gli astanti che  conoscevano bene il personaggio e sapevano quale peso dare alle sue chiacchiere e quale alle mie affermazioni.  

(...)

            Ricordo bene alcuni momenti particolari. Il resto è un po’ confuso: forse, considerata la grande corsa e le avventure che si succedevano con un ritmo frenetico, non può essere altrimenti.

            Fu un’avventura molto strana. Cominciando dalla camminata sui monti.

            Partimmo da Barga, se ben ricordo, passammo da Renaio e poi andammo sul crinale. Forse al Saltello? Ricordo una lunga fila della quale facevo parte anche io, e ricordo che avevamo tutti, io in particolare, una grande paura delle mine; quelle mine a strappo che esplodevano toccando un filo teso fra la mina ed un sasso posto dall’altra parte del sentiero.

            Ed io maledicevo chi aveva messo le mine, e maledicevo chi le aveva fabbricate ed anche chi le aveva volute.

(…)

            Le mine! Nei miei ricordi ce ne erano a migliaia. O forse non ne abbiamo trovata neppure una! La mia mente non serba memoria di quei giorni.

            Percorremmo lunghi tratti di crinali, esplorandoli alla ricerca di eventuali sbandati; ma i monti erano deserti, freschi, verdi, abbandonati, silenziosi. Noi camminavamo e camminavamo. Andammo al Giovo, e poi al Lago Santo e alle Tagliole.

            La gente ci accoglieva festante, perché il nostro passaggio voleva dire che la libertà era tornata, che i dannati maledetti sanguinari se ne erano andati.

            Portavamo la libertà: La portavamo in quei piccoli paesi persi nelle vallate e sui crinali. E la voce della libertà arrivata con noi forse si spandeva sui monti e nei paesi intorno e la gente gridava dalla felicità. Forse qualcuno piangeva per il ritorno della libertà.

            Noi eravamo portatori di Libertà e Felicità!

            Gli uomini nascosti sui monti lasciavano le loro tane, come quelli chiusi nelle soffitte e la sera si ballava e ci si divertiva. Il barbaro se ne è finalmente andato, ha preso le strade che lo riporteranno nei suoi lugubri villaggi popolati ormai solo di vedove e di mostri  orribili e deformi. Tornano nei luoghi dai quali sono partiti per seminare lutti, sangue e odio nelle nostre ridenti terre. I maledetti vestiti di verde con i loro accoliti vestiti di nero, sono finalmente sconfitti e fuggono.

            Noi li inseguiamo, con la speranza di riuscire a riprenderli.

            E noi, pieni del nostro orgoglio, siamo coscienti e fieri del fatto che abbiamo loro dato una bella spinta!

             Le Tagliole, dicevo, e poi S. Anna a Pelago. Ricordo le uova fritte di Gombola, in quella osteria prima del ponte.  

(…)

            Infine giungemmo a Sassuolo, ridente città ai piedi dell’Appennino. Di Sassuolo, dove sostammo forse due giorni, forse tre, ricordo l’Albergo Italia (ora non esiste più) e ricordo una bella ragazza (forse Giovanna?) terrorizzata da mesi di bombardamenti e mitragliamenti sulla ferrovia vicina.

            Anche Giovanna deve tanti ringraziamenti a chi, invece di lasciarle vivere la sua tranquilla vita di bella figliola, l’ha voluta trascinata in una guerra. Ma anche per lei ora è tutto passato. Le rimarrà nel ricordo la cazzottata fra noi e i brasiliani, giunti nel frattempo, nel bar dell’albergo per motivi che non compresi allora, figuriamoci se posso ricordarli adesso.

            Ai pochi giorni di Sassuolo fecero seguito giornate affannose e succedentisi con una tale velocità da non consentire alla memoria di trattenere ricordi coordinati. Conservo solo alcune rimembranze, come sprazzi di luce nel buio.

            Ricordo la notte in cui, forse eravamo già nel viaggio di ritorno, seduto solo e infreddolito nel cassone di un grosso autocarro, mentre questo percorreva una fangosa  strada nei campi, costellata da enormi buche, venni sbalzato fuori dal cassone da un sobbalzo brusco e più violento degli altri. Passai volando sopra la sponda e atterrai nel fango nero, molle e appiccicoso.

            Mi rialzai, sporco, bagnato e mezzo ristupidito, solo, nella nera e umida notte padana, con le luci dell’autocarro che si allontanavano traballanti. Non ricordo come raggiunsi il mezzo. E tutta la colonna.

            Ricordo il giorno in cui l’autocarro prese fuoco e sull’autocarro erano in sei o sette, e c’era un fusto di benzina, e casse di munizioni e la cosa non fu per niente piacevole. Tutti saltarono nella strada, poi uno risalì sul mezzo e cominciò a gettare a terra il carico: soprattutto cassette di munizioni.

            Io ero sul trattore che seguiva l’autocarro in fiamme. Colui che salì sul mezzo in fiamme non salvò il mio sacco, non ne ebbe il tempo e forse ci dovevo pensare io, ma il fusto era già lambito dalle fiamme e la polizia militare aveva isolato il mezzo e fermato la colonna che stavamo incrociando.

            Poi bruciò tutto e ci fu una grande vampata e noi perdemmo l’automezzo ed io il mio sacco. Con dentro tutto quello che possedevo. Ed era la quarta volta che perdevo tutto.  

            Ricordo, di quel viaggio, ma non ricordo in quali città, scontri vari con franchi tiratori, e ricordo anche i carri armati che ne distruggevano un nido.

            E Piacenza. Di Piacenza  ho memoria del Lungo Po e delle case che noi occupavamo. Scambio di cannonate tra tedeschi e americani attraverso il largo, solenne e lento fiume.

            Poi, mentre continuava lo scambio di cannonate, noi scendemmo con i nostri mezzi lungo la riva e, alcuni chilometri dopo, trovammo, abbandonato, un traghetto. E una barchetta a fondo piatto, una barca da fiume.

            “Servono quattro volontari (io fui uno dei quattro) che attraversino il fiume con questa barca e vadano a vedere cosa c’è dall’altra parte”.

                        Facile: si monta in quattro su una leggera barca di legno, si attraversa remando il fiume e si prende terra dall’altra parte.

(…) Se sulla riva opposta c’è un solo tedesco (ma forse ce ne sono decine, nascosti fra i cespugli e i sassi) e ci spara una sola fucilata, ci manda a fondo e carichi come siamo di armi e munizioni, cosa facciamo? Nuotiamo?

            No! Affoghiamo, miseramente affoghiamo; in pochi secondi siamo sul fondo fangoso.

(…)  

            Ricordo anche, di quel avventuroso viaggio, il dramma della jeep che sbanda e va a fracassarsi sul muro di una casa dall’altra parte della strada, Tre giovani morti. Tre giovani americani.

(…)

            Un  bravo  ragazzo, ligure, possedeva  una grossa pistola a tamburo, di  quelle in dotazione ai carabinieri fino all’inizio  della guerra.  Nel tamburo di quella pistola c’era un solo  colpo,  una cartuccia  difettosa che non voleva esplodere. Tutti  lo  avevamo visto, quel giovane, e decine di volte, premere il grilletto fino a  quando il tamburo aveva fatto tutto il giro e poi “clac”,  sul detonatore  difettoso.  Ma il colpo non partiva,  non  ne  voleva sapere, non c’era niente da fare. Non  so perché il ragazzo si portasse dietro quella  grossa, pesante,  ingombrante,  inutile  arma: forse  era  stata  la  sua pistola  d’ordinanza e si era affezionato a quel arnese.  Ci  fu l’improvvisa avanzata e noi eravamo dalle parti di Modena  quando ci  giunse  notizia che la sua città era stata liberata  ed  egli chiese  ed  ottenne un breve permesso per andare  dai  suoi,  per salutarli,  per  vederli  e farsi vedere,  per  dare  e  ricevere notizie. Erano anni che non si vedevano. Un giorno tornò e riprese con noi la marcia su Milano.

            A Milano il dramma. Eravamo nella fattoria requisita e tutti quelli di noi che erano liberi  da servizi  vari  furono chiamati alla pulizia delle  armi. Distese a terra le coperte e tutti noi  intorno, ognuno  intento alla pulizia della sua arma, al  riempimento  dei caricatori. Alle mie spalle, seduto a terra come tutti, c’era  il giovane in questione: puliva la sua inutile arma. Si sentì  un colpo e poi un grido: il giovane era steso a terra e si teneva le mani sul ventre. Lo trasportammo correndo verso una vettura  che lo portasse all’ospedale. Ma quando arrivammo alla macchina  era già morto.

            Quella  maledetta inutile vecchia pistola; quella  maledetta inutile innocua cartuccia difettosa che non voleva  assolutamente esplodere, avevano scelto quel momento per fare quello per cui erano state fabbricate. E la difettosa cartuccia gli spedì il proiettile nel ventre. Era morto! Pochi giorni dopo essere stato a trovare i  suoi, pochi giorni dopo aver fatto vedere che era vivo, che la  guerra, per lui, era finita bene. La guerra era finita da pochi giorni  e noi eravamo tutti contenti. Fino a quel momento.

(…)


di A. Battaglini - Tutti i diritti riservati